Personaggi illustri
Aulo Irzio
Nato a Ferentino nel 90 a.C, censore di Caio Giulio Cesare dal 54 a.C. nel corso della conquista della Gallia. Durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo combatté sotto le insegne cesariane in Spagna, forse come tribuno militare, e poi in Asia Minore. Fu pretore nel 46 a.C. e governatore della Gallia Transalpina nel 45 a.C. Cesare lo designò console nel 43 a.C. circa ricoprendo anche la carica di capo di stato maggiore e dopo l’assassinio del suo ex comandante, si trovò coinvolto nei torbidi della successiva guerra civile. Dapprima si schierò con Marco Antonio, ma poi, convinto dal suo amico Marco Tullio Cicerone, sposò la causa senatoria e si scontrò con Antonio, insieme a Pansa e a Ottaviano a Modena. Sebbene Antonio venisse sconfitto, Irzio e Pansa morirono in questo scontro nel 43 a.C. Autore dell’VIII Libro dei Commentari della Guerra Gallica lasciato incompleto da Cesare, fu amico di Cicerone, ma sebbene li legasse un’intensa amicizia, scrisse un libello contro il suo elogio in favore di Catone. Fu nominato insieme a Marco Lollio nell’iscrizione dell’Acropoli a Ferentino dove sono state rinvenute monete di entrambi i censori-consoli. Il suo sepolcro, è stato scoperto casualmente nel 1938, si trova sotto il palazzo della Cancelleria; attualmente risulta in gran parte sommerso dalle acque dell’Euripus, il canale che attraversava il Campo Marzio per sfociare nel Tevere. A fine ‘800 costruendo i muraglioni sul Tevere, furono ostruiti gli sbocchi dell’Euripus e di altri canali di scarico della zona, cosa che provocò l’innalzamento e il ristagno delle acque. Il sepolcro, tagliato in parte dalle fondazioni del Palazzo della Cancelleria, fu fatto costruire dopo l’eroica morte dei due consoli, Aulo Irzio e Vibio Pansa (43 a. C), il senato romano decretò che fossero eretti per loro due sepolcri nel Campo Marzio a spese pubbliche.
Marco Lollio
Il censore, citato insieme ad Aulo Irzio nell’iscrizione dell’Acropoli, era di famiglia ferentinate, come fa supporre il suo tenimento nell’ager Ferentini – Lollianum – ora Giuliano di Roma. Una tradizione vuole che la famiglia Lolli discenda dal suo casato. Appartenente, dunque, alla Gens Lollia, homus novus dell’epoca augustea, faceva parte dell’aristocrazia cittadina dell’Antica Roma. Nato a Ferentino nel 54 a.C circa, ricoprì il Consolato nel 21 a.C., fu leale collaboratore dell’imperatore Augusto, cui dovette il successo della sua carriera. Iniziò la sua ascesa soprintendendo alla trasformazione del Regno di Galizia tra il 25 e il 24 a.C.; in seguito entrò a far parte dei quindecemviri insieme allo stesso imperatore e a Marco Vipsanio Agrippa. Combatté in Tracia (nel 19-18 a.C.) e poco più tardi, inviato in Gallia, subì una disastrosa sconfitta (clades lolliana del 17 a.C.) contro Sigambri, Usipeti e Tencteri, dove perse un’intera legione (la legio V). Nell’ 1 a.C. divenne compagno e consigliere di uno dei due eredi designati a succedere ad Augusto, Gaio Cesare, durante la spedizione in Armenia contro i Parti. Caduto in disgrazia, sembra per aver ricevuto doni dai principi orientali senza averne titolo, ma forse anche per aver osteggiato una riconciliazione tra Gaio Cesare e Tiberio, si suicidò avvelenandosi – in Oriente nel 2 d.C.
Flavia Domitilla Maggiore. (m. 69)
Fu la moglie dell’Imperatore romano Vespasiano (Tito Flavio Vespasiano). Figlia di Flavio Liberale, un questore, sposò prima un africano appartenente all’ordine equestre e poi, nel 38, il futuro imperatore. Diede alla luce Flavia Domitilla Minore, Tito e Domiziano, ma morì prima che Vespasiano assumesse il titolo.
Gregorio da Montelongo
Ciociaro di Castello, territorio di Ferentino, nominato Legato Papale nel 1238 circa, capeggiò la coalizione guelfa contro la parte ghibellina, che faceva capo a Federico II. Prelato astuto e bellicoso maturato nella burocrazia romana, diplomatico capace delle trame più complesse al punto da mobilitare tutte le città fedeli perché inviassero soldati, attrezzature militari, vettovagliamento. La triade al governo del comune milanese, composta da Guglielmo da Rizolio, Gregorio da Montelongo e Leone da Perego, si dimostrò particolarmente combattiva contro le eresie ed efficiente nel pianificare la lotta. Nel 1239 i tre scesero in campo fianco a fianco con l’esercito milanese contro Federico II, che scrisse lamentandosi del fatto al re d’Inghilterra. Il 18 febbraio del 1248, segnò la sconfitta dell’imperatore Federico II, nella battaglia di Parma, da parte di Gregorio da Montelongo. In un primo tempo gli imperiali sembravano poter avere la meglio sugli avversari, ma successivamente Gregorio da Montelongo – ottenuta l’alleanza con Parma – riportò una netta vittoria. Federico II armò allora un potente esercito e strinse d’assedio Parma. Ma l’eroe ciociaro riuscì nell’impresa di rompere l’assedio e di trascinare le truppe al suo comando contro l’accampamento di Federico II, annientando gli imperiali e costringendo lo stesso imperatore ad una fuga precipitosa.
Federico II
Il suo nome è legato a quello di Ferentino in quanto nel 1223 si tenne un congresso tra l’Imperatore di Svevia e Papa Onorio III nella Cattedrale per discutere la situazione in Terra Santa e prendere accordi per la crociata. Nella stessa basilica cattedrale fu deciso il matrimonio dell’imperatore, rimasto vedovo di Costanza D’Aragona, con Jolanda, figlia del Re di Gerusalemme Giovanni di Brienne. Come testimonianza, sul portale della sagrestia della cattedrale sono presenti le testine di Federico II e del suocero con l’effige della civetta, simbolo di un corretto uso del potere. Anche nell’Abbazia di Santa Maria Maggiore, nel portale laterale sinistro è presente una testina dell’Imperatore di Svevia, che sostenne i restauri della suddetta abbazia e per questo la sua munificenza fu ripagata con l’inserimento della testina. La personalità dello stupor mundi è una delle più complesse della storia. Nato da padre tedesco e da madre normanna, egli ebbe la fierezza, la durezza e l’alterigia della razza germanica e l’ardire, lo spirito d’iniziativa e il temperamento avventuroso dei Normanni; cresciuto in Italia, fra gente di stirpe latina, greca ed araba, ebbe degli Italiani il senso pratico e positivo, dei Greci la scaltrezza e l’istinto della dissimulazione, degli Arabi la sensualità. Vissuto in un periodo di transizione, in un tempo in cui tramontò un’epoca e ne sorse un’altra, Federico è al contempo uomo medievale e moderno; può essere considerato come l’ultimo imperatore del Medioevo e il primo principe del Risorgimento. Altissimo fu il concetto della dignità imperiale e della propria autorità, ed è per questo che dedicò tutta la sua attività a quello che era lo scopo della sua vita e a quella che credette la sua missione: abbattere la teocrazia papale e dare alla potestà civile l’indipendenza e la supremazia; ma, a differenza degli imperatori che lo hanno preceduto, fu contrario all’ordinamento feudale e volle una monarchia quasi assoluta, in cui fosse accentrato il potere e, pur vivendo nell’ambito delle idee e dei princìpi della Chiesa, tese a studiare razionalisticamente i problemi della scienza e le verità della fede, e della religione non fece il fine ma lo strumento della sua politica; da ultimo Federico non fece, come gli altri sovrani tedeschi, il centro dell’Impero in Germania, ma stabilì questo in Italia e precisamente in Sicilia, e da qui governò i suoi vasti domini. Restaurare l’autorità regia in Sicilia, rendere la potestà imperiale indipendente dal Papato, abbattere i comuni e unificare l’Italia sotto lo scettro della casa Sveva: questo il programma politico di un uomo assertore di uno stato civile, svincolato da un’autorità religiosa invadente e troppo amante del potere terreno.
Antonio Floridi
Nacque a Ferentino nella seconda metà del XV secolo. Laureatosi a Roma in utroque iure, diritto canonico e civile, ebbe una collocazione di primo piano nella struttura sociale del suo tempo. Secondo i documenti d’archivio, fu ammesso nell’amministrazione giudiziaria. Ferentino all’epoca era sede del Rettorato di Campagna e Marittima ed anche sede del tribunale che riceveva gli appelli dai tribunali locali: il Floridi vi esplicò le funzioni giudiziarie. Svolse anche funzioni notarili, che tra l’altro conferivano, a chi le esercitava. – ambiti privilegi come per esempio quello di usufruire del titolo di dominus. Per le sue ottime qualità di giureconsulto, fu nominato governatore del feudo Colonna dell’omonima casata romana. È stato senza dubbio tra i più noti e prestigiosi notai e giureconsulti del ‘400-500 della Provincia di Campagna e Marittima.
Papa Celestino V
Nel contado di Ferentino sopra un ridente poggio, che sovrasta l’antica via Latina, oggi via Casilina, fu edificato nel XIII secolo un monastero legato indissolubilmente alla vicenda terrena dell’eremita fra Pietro Angelerio del Morrone, eletto papa nel 1294 col nome di Celestino V, al termine dell’agitatissimo conclave riunito a Perugia e durato ben 27 mesi. Dal giorno della sua morte, avvenuta il 19 maggio 1296 nella rocca di Fumone, ove, dopo la grande rinuncia, Celestino V era stato rinchiuso per timore di uno scisma da Bonifacio VIII “sotto la guardia di sei cavalieri e trenta uomini d’arme”, la città di Ferentino custodì la salma di Pietro Celestino fino al 1327, per 31 anni dopo la morte e per circa 15 anni dopo la canonizzazione avvenuta il 5 maggio 1313 da parte di Clemente V in Avignone. Nel 1327 il corpo di Celestino V fu trafugato e l’occasione propizia fu offerta dalla lotta territoriale scoppiata tra Ferentino e la vicina città di Anagni. Rocambolesco è il racconto del trafugamento e della traslazione del corpo di Celestino V a L’Aquila e molto suggestiva è la vicenda del ritrovamento del cuore del Santo nel sepolcro. Come detto, nell’anno 1327, per la grande e aspra guerra tra la città di Ferentino e quella di Anagni, i cittadini di Ferentino, dubitando che li fosse tolto il corpo del glorioso San Pietro, esistente nella chiesa di S. Antonio, uscirono un giorno alla sprovvista dalla città con soldati armati, con la guida di Filippo, vescovo e cittadino di Ferentino, in compagnia del clero ed entrarono nel monastero; e nella suddetta chiesa, il vescovo aiutato dal clero cavò il sacro corpo, che fu onorevolmente riposto nella chiesa di S. Agata, vicina al borgo di Ferentino e di continuo guardato da un buon numero di soldati e da due monaci celestiniani nativi di Ferentino. I monaci della chiesa di S. Antonio, privati del corpo di Pietro Celestino, ne scrissero al Padre Visitatore Generale, allora residente a Sora, il quale, subito trasferendosi nel monastero, riuscì a recuperare le sacre reliquie con uno stratagemma: trafugate nottetempo le ossa del Santo Padre dalla cassa sigillata che era custodita a S. Agata, esse furono raccolte in un panno di lino e avvolte in un materasso che, posto in testa a una robusta donna, fu mandato fuori della città, nel monastero di S. Antonio, fingendo con i soldati della guardia che il materasso della guardia servisse per il Visitatore. Quindi, per ordine dello stesso Visitatore, le ossa furono immediatamente trasportate a L’Aquila, nella basilica di S. Maria di Collemaggio. Le Storie locali narrano la dolorosa sorpresa che ebbero autorità, clero e cittadini ferentinati, quando si recarono presso il sepolcro con la segreta speranza che le reliquie del Santo fossero ancora là e, invece, lo trovarono vuoto. Le cose non sarebbero passate lisce, se il Vescovo di Ferentino, disceso nel sepolcro, non avesse calmato le ire dei ferentinati, annunciando di avere ritrovato nel sacello vuoto il cuore del Santo, rimasto miracolosamente conservato, quasi a confermare la promessa che più volte Pietro Celestino aveva fatto ai cittadini di Ferentino, dicendo loro che, se Egli partiva, il suo cuore sarebbe rimasto con essi. La reliquia insigne fu portata processionalmente in città e affidata alle monache di S. Chiara. Come attestano le fonti, S. Antonio abate fu il primo cenobio fondato da Pietro Celestino fuori nella regione abruzzese nelle nostre zone, cenobio che costituì il fulcro avanzato della penetrazione dell’Ordine celestino nel territorio laziale. Il 19 maggio 1637 il Consiglio Comunale di Ferentino stabilì di chiedere a Urbano VIII l’istituzione di una fiera esente da gabelle da effettuarsi nella ricorrenza solenne del dies natali di Celestino V (19 maggio). La Città di Ferentino il 20 dicembre 1642 chiese alla Congregazione del Buon Governo la ratifica della festa del 19 maggio che già il Comune celebrava solennemente in onore di Celestino V. Per accertare la continuità del culto verso il santo Pontefice, venne inviato a Ferentino il 4 giugno 1683 il card. Nicola Ludovisi come visitatore apostolico. Nel monastero di S. Antonio abate i Celestini non risiedevano più e quindi sia il complesso monastico sia le sacre reliquie di Pietro Celestino, ivi conservate, erano “in posse et manibus laicorum” col pericolo di negligente custodia. La festa del Papa eremita da sempre solennizzata il 19 maggio con la celebrazione di una messa festiva, nell’anno 1683 “cum populi scandalo” si era svolta con la sola processione, che, partita dal monastero delle suore Clarisse di Ferentino, aveva accompagnato nell’eremo rurale di S. Antonio la reliquia del cuore di Celestino V. Il cardinale Ludovisi, recatosi il 5 giugno 1683 a ispezionare la chiesa e il cenobio di S. Antonio abate, vi rinvenne numerose reliquie del Pontefice e specialmente notò un crocifisso ligneo, assai deteriorato dai tarli, davanti al quale Pietro del Morrone era solito pregare e dal quale aveva ricevuto illuminazioni e locuzioni. Il cardinale Ludovisi elencò minuziosamente tutte le venerate reliquie di “S. Pietro Celestino, sommo pontefice, protettore et avvocato di questa città” di Ferentino, “all’intercessione del quale tutti ci raccomanderemo”. Il 2 febbraio 1703 la comunità ferentinate sperimentò il potente intervento di Celestino V, suo avvocato, per la protezione con la quale salvò la città da un tremendo sisma, che sconvolse la regione. Per perenne ringraziamento, su sollecitazione del Vescovo Valeriano Chierichelli, il 21 febbraio del medesimo anno il consiglio comunale di Ferentino stabilì di donare 5 libbre di cera ogni anno nella festa di S. Pietro Celestino e di supplicare il Papa affinché rendesse “di precetto” una tale solenne ricorrenza. In una lapide di marmo al centro del pavimento della chiesa di S. Antonio Abate, è inciso lo stemma del defunto pontefice. Sotto lo stemma vi è un foro per vedere il sottostante sarcofago in cui riposò il corpo di S. Celestino dal 1296 al 1327. Nell’autunno del 1968, in occasione di straordinarie commemorazioni celestiniane, le venerate spoglie sono tornate a Ferentino dove furono esposte e onorate, per alcuni giorni, nelle chiese di S. Agata, nella chiesa Cattedrale e nella chiesa di S. Antonio Abate. (tratto da “IL COMPLESSO MONASTICO MONUMENTALE DI S. ANTONIO ABATE” – ASSOCIAZIONI CULTURALI “GLI ARGONAUTI” E “PRO-LOCO” – Tipografia di Casamari 1990 e da “FERENTINO IERI…” – 1981)
Rinaldo Conti, Capitano del Popolo di Ferentino, responsabile, con l’ emissario del re di Francia Guglielmo di Nogaret, dello “schiaffo di Anagni” contro papa Bonifacio VIII.
Martino Filetico
Apprezzato per molti anni alle corti degli Sforza e dei Montefeltro. Nato a Filettino nel 1430, venne a Ferentino per istruirsi nelle Lettere Classiche. Dopo aver compiuto gli studi a Roma entrò nell’Accademia di Pomponio Leto e, successivamente, si recò a Bisanzio per studiare la lingua greca. Tornato in Italia, per la sua fama di maestro e di umanista fu chiamato a Pesaro come precettore di Battista Sforza, figlia del Signore della Città. L’umanista continuò a curare l’educazione della discepola, divenuta la moglie di Federico di Montefeltro, Signore di Urbino. Alla morte di Battista, lasciò Urbino e tornò a Roma per ricoprire l’incarico di docente di Latino e Greco nello Studium Urbis. Alla sua morte – avvenuta nel 1490 a Ferentino – Martino Filetico lasciò alla scuola ferentinate – attuale sede del prestigioso Liceo Classico e Scientifico nell’omonimo Palazzo Martino Filetico – una cospicua eredità, perché in essa venissero accolti ed educati gratuitamente i giovani poveri della città e del territorio. Fu sepolto nella chiesa di Sant’Antonio Abate.
Ambrogio Novidio Fracco
Autore di un poema dedicato a papa Paolo III. Ambrogio Novidio Fracco nacque a Ferentino nel 1480. Anche se definito erroneamente come un umanista minore del Rinascimento, la sua poesia offre certamente aspetti di non trascurabile interesse, tanto che i ferentinati gli dedicarono anche una scuola media a lui intitolata. Compose varie opere, in particolare il poema Fasti stampato nel 1574 e dedicato a Papa Paolo III (1534-1549) , il quale ne ebbe l’esclusiva, ma iniziato sotto Leone X (1513-1521) con grande difficoltà riuscì a salvarlo durante il Sacco di Roma del 1527 nascondendolo nella casa del suo amico Rutulo. Nell’elegia De Adversis narra, appunto, le vicende del Sacco di Roma, i tradimenti della Francia, le incertezze di Papa Clemente VII (1523-1534) ed altro: per l’accurata descrizione le sue elegie hanno un carattere puramente storico. Tra i vari onori che conseguì vi fu anche quello di essere incoronato poeta in Campidoglio. Dopo aver soggiornato a Roma durante il Sacco ed essendo stato minacciato più volte dai Lanzichenecchi, decise di tornare a Ferentino.
Silvio Galassi (1585-1591)
Nato a Frosinone intorno al 1530, aveva studiato diritto ed era iuris utriusque doctor. Rimase presso la Curia Romana per diciassette anni portatovi dal Cardinale Cicala intorno al 1552-1553. Passò poi al servizio del nipote del cardinale e con lui si recò in Spagna dove rimase per ben due anni. Uomo di notevole cultura, nonché di profondo profilo morale e spirituale fu ben tenuto in considerazione da Papa Gregorio XIII (1532-1585). Il primo impatto con la Diocesi di Ferentino non fu facile per lui che aveva spesso ricoperto incarichi di curia ed aveva avuto esperienze di carattere giuridico anche se non erano mancate quelle di carattere pastorale. Non appena divenne Vescovo di Ferentino, mise in pratica ciò che aveva imparato in un lungo apprendistato ed il suo primo atto deliberativo fu la risoluzione della controversia sorta sul prezzo del grano dato a credenza dal canonico Giovanni Leonini. Durante tutto il suo episcopato cercò, infatti, di combattere l’usura e giunse a comminare la scomunica a chi approfittava dei beni ecclesiastici. Nell’archivio della Curia Vescovile di Ferentino è conservato un solo documento di Silvio Galassi: la sua visita pastorale del 1585: da questo documento emerge una situazione religiosa complessa e delicata, realtà comune a molte diocesi della zona, data la presenza di un clero molto spesso impreparato ed incapace di svolgere la sua missione. La suddetta visita pastorale era costituita da due parti: la prima dedicata alla conoscenza della situazione ferentinate; la seconda a quella della diocesi. Il Galassi sosteneva che il principale problema da risolvere era la formazione culturale e morale del clero e per raggiungere questo fine, sia durante la visita pastorale che durante tutto il suo episcopato, cercò di concretizzare gli indirizzi di riforma del concilio tridentino. Egli regolamentò le processioni, riorganizzò il comportamento dei canonici cercando di mitigare il suo forte legalismo con uno slancio tipico del riformatore e per questo non si occupò solo dell’applicazione delle norme, ma, appunto, del recupero canonico, interessandosi degli archivi ecclesiastici e della loro funzionalità. Ma tra le preoccupazioni del Vescovo quella maggiore riguardava il restauro e la conservazione dignitosa dei luoghi di culto. In ogni chiesa visitata il Galassi ordinò di ripararne arredi liturgici, rendendoli più decorosi, di apporre alle finestre speculas di tela cerata per evitare correnti di aria fredda. L’interno delle varie chiese venne ornato con immagini di Santi: in Cattedrale l’Annunciazione con una pittura per pictorem; l’abside di Santa Lucia con l’affresco raffigurante una scena della vita dell’omonima titolare; la cappella di Sant’Ambrogio della medesima chiesa con l’immagine del Martire tra altri Santi; la sagrestia di Santa Maria Maggiore con la raffigurazione di Cristo, della Madonna e di Sant’Ambrogio. Apportò, inoltre, restauri alle scuole, ai monasteri, ai conventi, nonché all’ospedale del Santo Spirito.
Alessandro Angelini (1820 – 1885)
Nasce a Ferentino (Frosinone) il 19 marzo 1820 da Giuseppe e Annunziata Fortuna, sestogenito di dieci figli.
Si laurea in Medicina il 12 agosto 1843 presso l’Università degli Studi di Roma ed inizia a lavorare presso l’Ospedale Santo Spirito in Roma, divenendo ben presto Primario medico.
Aderisce alle idee innovatrici, democratiche e patriottiche propugnate da Mazzini.
La Repubblica Romana del 1849 lo vede Deputato alla Assemblea Costituente con 1.646 suffragi, per il Distretto di Frosinone.
Ma il 3 luglio 1849 le truppe del generale Oudinot entrano in Roma ristabilendo il potere temporale.
Angelini, insieme a tanti altri eroici difensori, è costretto a prendere la via dell’ esilio.
Non sappiamo quale sia stata la prima tappa del suo lungo peregrinare. Secondo alcuni va in Turchia a Smirne, ma la notizia non ha trovato conferma.
Da un rapporto di polizia del 27 aprile 1852, infatti, risulta dimorare in un piccolo paese del Piemonte, dove esercita la sua professione medica. Si ignora, però, quale sia il paese di residenza e per quanto tempo abbia esercitato la professione. Sicuramente si è, poi, trasferito a Torino, città che nel dopo-Quarantotto ha accolto migliaia di esuli politici.
Nonostante la matrice mazziniana e repubblicana, Alessandro Angelini sposa ad un certo punto la causa monarchica. Come molti patrioti, tra i quali Garibaldi, capisce che il Piemonte, Cavour e Vittorio Emanuele Il costituiscono l’unica possibilità concreta, in quel momento, per unire l’Italia ed abbattere il potere temporale dei Papi.
Nel 1855 partecipa con il Corpo di spedizione, al comando del generale Alfonso La Marmora, alla guerra di Crimea.
Nel novembre 1860, si trova a Cassino, proveniente da Napoli per incontrarsi con un gruppo di fuoriusciti pontecorvesi.
In qualità di Commissario del Governo piemontese, il suo compito è quello di organizzare la rivolta e l’invasione di Pontecorvo.
L’8 dicembre 1860 Angelini invade Pontecorvo, alla testa di 40-50 armati. Dal febbraio 1861 di Alessandro Angelini non si ha più alcuna notizia, da quando, cioè, il Commissario regio invia una sollecita richiesta al Dicastero dell’Interno di restauro del ponte di Pontecorvo, distrutto dalle truppe borboniche nell’ottobre 1860 per impedire l’ingresso alle truppe italiane.
A Torino nel 1864 pubblica un piccolo saggio politico di 48 pagine dal titolo Il ministero e l’Italia: considerazioni. Da questo scritto, si evince, tra l’altro come Angelini sia un profondo conoscitore dell’ ambiente politico torinese ed un assiduo frequentatore delle stanze parlamentari. Schierato sulle posizioni della Sinistra, per meglio propagandare le sue idee e contrastare quelle degli avversari, svolge una intensa attività giornalistica.
È ragionevole pensare che, dopo il soggiorno torinese, sia passato a Firenze nel 1864, in occasione del trasferimento della capitale del Regno in questa città.
Nel 1867 Alessandro Angelini risulta iniziato alla Massoneria presso la loggia “Amici veri dei Virtuosi” di Livorno. Era questa una loggia fondata nel 1858, sotto tutela francese e poi passata nel 1895 al Grande Oriente d’Italia, frequentata, data la sua caratteristica portuale, da molti stranieri ed esuli.
Ritornato a Ferentino solamente nel 1870, alla definitiva caduta del potere temporale dei Papi, Angelini il 20 settembre viene eletto Presidente della nuova Giunta Provvisoria. Dopo un mese, però, per la sua posizione intransigente, viene sostituito come Presidente dall’ avvocato Achille Giorgi e non fa più parte della Giunta.
La classe clericale e borghese, ben presto, lo isola, tanto che è costretto, per vivere, a dare lezioni private.
Nell’agosto 1871 viene dal Ministro dell’Istruzione Pubblica nominato Delegato scolastico del Mandamento di Ferentino.
Nel 1873, convinto che nell’associazionismo risieda la migliore soluzione della questione sociale, patrocina la fondazione della Società di Mutuo Soccorso di Ferentino, insieme a Luigi Zaccardi, primo Presidente.
Muore a Ferentino il 18 gennaio 1885, all’età di 64 anni. (fonte Giacinto Mariotti)
Pietro Viviani
Tra i dottori della medicina va ricordato che a tanta eccellenza salì in questa scienza da essere prescelto dal Papa Martino V quale suo archiatra, e confermato in tale ufficio dal successore Eugenio IV. L’anno 1420 il dottor Viviani ottenne dal Pontefice Martino V, a favore della sua Patria, che nel giorno di sabato fosse libero il mercato: consuetudine tuttora vigente; ottenne inoltre che si potesse esigere dai passanti un tassa per il mantenimento delle mura castellane e della città. Il Papa Eugenio IV creò il dottor Viviani Signore della Baronia e del castello di Porciano. Tale possesso fu donato dai Viviani ai Canonici della Cattedrale di Ferentino che l’ebbero legittimamente in uso fin dal 1870.
Marianna Candidi Dionigi. (1756-1826)
Nobildonna romana, figlia di Giuseppe Candidi e Maddalena Scilla. Nacque nel 1756 e visse nel pieno dei grandi cambiamenti politici e sociali in Europa tra i quali la Rivoluzione Francese e l’Impero Napoleonico. Molteplici sono le attività culturali alle quali dedicò gran parte della sua esistenza: musica (arpa e piano), quindi. fuori della comune usanza del tempo, lingua francese, inglese e qualche erudimento di lingua latina. Si dedicò in seguito agli studi archeologici ed alla pittura sotto la direzione del rinomato paesista Carlo Labruzzi, poi divenuto Direttore dell’Accademia di Perugia. Eseguì a penna alcune opere di Poussin e Salvator Rosa e realizzò numerosi disegni a tempera. Pittrice emerita, i suoi quadri si trovano presso il Palazzo della Cancelleria in Roma, presso l’Accademia di San Luca e la Reggia di Caserta, in Inghilterra e presso le famiglie dei suoi discendenti a Roma e Lanuvio. Scrisse anche un’opera didattica Sulla pittura dei paesi corredata da un trattato sull’architettura e di prospettiva e Viaggi in alcune città del Lazio che si dice fondate dal Re Saturno, nel quale descrive minuziosamente l’origine delle città laziali ed ogni monumento della città di Ferentino, come di altri paesi della Ciociaria, donandoci visioni di paesaggi non più esistenti realizzate durante i suoi viaggi di studio, ricerca e conoscenza. Ebbe rapporti culturali con Vincenzo Monti, Shelley, il grande scultore Antonio Canova, Giacomo Leopardi e con l’archeologo d’Angincourt. Sposò giovanissima il giureconsulto Domenico Dionigi, conte del Sacro Palazzo Lateranense, nobile ferrarese, dal quale ebbe sette figli. Lo spirito e la cultura che l’adornavano, le attirarono sempre onorevolissime relazioni e si vide attorniata fino alla vecchiaia da dotti ed aulici artisti di ogni genere. Conosciutissima e stimatissima da tutti, recitò poesie di ottima composizione e in stile forbitissimo nelle adunanze arcadiche. Morì a Lanuvio nel 1826.
Filippo Stampa (1710-1798)
Figlio illustre della nobile casata del conte Pietro Stampa di Milano, Filippo fu saggio amministratore del Comune di Ferentino e dello Stato di Castro e del Ducato di Ronciglione. Coltivò gli studi e dedicò grande cura alla tutela del patrimonio della collettività anche attraverso la premurosa custodia delle carte d’archivio. Nella sua attività amministrativa fu animato da nobili ideali: rispettare la giustizia, assicurare il lavoro e non pregiudicare i diritti dei poveri. Sull’area del suo palazzo gentilizio, distrutto durante la Seconda Guerra Mondiale, sorge ora l’attuale Municipio.
Alfonso Giorgi (1824-1889)
Eclettico cultore delle patrie memorie, gonfaloniere di Ferentino nell’ultimo periodo del potere temporale dei Papi, promotore della cultura a tutela del patrimonio storico-artistico di Ferentino, Alfonso Giorgi dedicò la sua vita agli studi e alle ricerche erudite. Coltivò, a beneficio della sua città natale, l’amicizia di illustri personaggi, tra i quali Teodoro Mommsen, ospitando nella sua casa dotti e scienziati, mettendo a loro disposizione le sue vaste conoscenze e la sua ricca biblioteca. Non disdegnò l’attività amministrativa, che svolse con impegno e competenza a vantaggio di tutti i cittadini e fu Cameriere Segreto di Spada e Cappa di Pio IX, per quattro volte Gonfaloniere di Ferentino nonché Sindaco dopo l’Unità d’Italia. I Giorgi furono una delle famiglie più in vista nella Ferentino degli ultimi tre secoli, tanto che ottennero anche l’iscrizione al ceto nobile della città. Le prime attestazioni della famiglia risalgono al 1514 quando i Giorgi, proprietari di fornace, risultano fornitori della Venerabile Fabbrica di San Pietro. Si è voluto intitolare la Biblioteca Comunale di Ferentino ad Alfonso Giorgi in quanto il suo ricco archivio personale rispecchia gli interessi del classico erudito. Esso contiene manoscritti antichi di storia locale, schede e collezioni di epigrafi latine, appunti di archeologia e ricchissimo carteggio epistolare di autorevoli personaggi e studiosi ottocenteschi, relativo alle sue ricerche e studi. Alfonso Giorgi, valido epigrafista, fu socio dell’Istituto di Corrispondenza Archeologico Germanico, sul cui Bullettino furono pubblicati testi epigrafici inediti. Lo studio delle antiche lapidi della provincia di Campagna e Marittima, da lui intrapreso, lo portò a collaborare, tra gli altri, con T. Mommsen, B. Borghesi, G.B. De Rossi e W. Henzen. La “Biblioteca Privata Alfonso Giorgi”, così come si presenta attualmente, è stata allestita nel 1980 ad opera di Pio Roffi Isabelli, ma solo nel 1989 è stata regolarmente censita nell’Annuario delle Biblioteche Italiane a cura del Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali. Essa consta di circa 1400 volumi ed opuscoli che trattano di Diritto e Economia, Epigrafia Latina, Storia Ecclesiastica, Scienze Naturali, Filosofia e Lettere Classiche per un arco cronologico esteso dal 1500 al 1900.
Achille Giorgi (1824-1890)
Patriota, magistrato, primo sindaco di Ferentino (1871-1876), consigliere provinciale a Roma per il Circondario di Frosinone (1877-1880), spese la sua vita per l’ideale dell’unificazione e dell’indipendenza italiana. Fu amministratore probo, saggio e lungimirante. Si distinse per la saldezza e l’integrità del carattere, per la nobile gentilezza dell’animo e per l’intemerata onestà. Nella sua generosa azione amministrativa, animata da sincere convinzioni democratiche, Achille Giorgi si volse verso tutti i campi di interesse sociale, rinnovando e ammodernando le istituzioni municipali e prodigandosi per il progresso e l’emancipazione della società civile.
Alfonso Bartoli (1874-1957)
Nato nel 1874 a Foligno, senatore nel 1939 ed archeologo, socio della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, nel corso di una ripetuta e lunga permanenza a Ferentino, effettuò sulle antichità ferentinati notevoli studi in ambito archeologico e la nostra città si onorò di averlo quale cittadino onorario. A lui si deve il merito di uno studio approfondito relativo al Teatro, effettuato nel 1923, e in una lettera al sindaco di Ferentino, rievoca l’ inatteso risultato di prolungate indagini archeologiche condotte sul sito.
Luigi Morosini
Nato a Ferentino nel 1866, frequentò la scuola tecnica della città; interessato alle arti figurative, si iscrisse all’Accademia delle Belle Arti a Roma, seguì il corso speciale per la conoscenza e lo studio degli stili architettonici greco, romano e rinascimentale; conseguì il diploma di professore di disegno architettonico e si iscrisse alla Scuola di applicazione per gli ingegneri di Roma e nel 1893 si laureò in ingegneria. Il Morosini svolse attività secondaria nei lavori di costruzione del Vittoriano insieme al cognato Giuseppe Sacconi e dopo la morte di quest’ultimo – avvenuta nel 1905 – ottenne di entrare come ingegnere civile al Ministero dei Lavori Pubblici. In quello stesso anno si dedicò ai lavori di restauro delle bifore romaniche di Palazzo Consolare emerse sulla facciata del Palazzo durante i lavori di demolizione della torre; lavori che terminò nel 1909. Rimasto poco tempo al Ministero dei Lavori Pubblici, fu richiesto dalla Direzione Generale delle Belle Arti che lo destinò in missione alla Soprintendenza dei Monumenti del Lazio, dove svolse la sua attività per circa dieci anni. Sotto la guida dell’archeologo Rodolfo Lanciani, Morosini ebbe l’incarico di dirigere i lavori per completare la sistemazione della zona monumentale di Roma, in particolare per l’isolamento delle Terme di Caracalla e del Colosseo. Nel ripristino e nella valorizzazione dei resti archeologici romani cercò di esaltarne la solennità monumentale, senza alcune volte considerare adeguatamente la ricchezza delle stratificazioni storiche, spesso indispensabili per una completa conoscenza dei monumenti. Nel 1906 il Consiglio Comunale di Ferentino affidò al Morosini il progetto per la costruzione dell’edificio scolastico per uso delle elementari maschili che si decise dovesse sorgere nel terreno adiacente la chiesa semidistrutta di San Lorenzo; la stessa costruzione avrebbe consentito di riutilizzare i muri ancora in piedi della chiesa medievale di San Lorenzo. Ma il progetto, approvato nel 1910, non fu mai realizzato per difficoltà economiche connesse all’esproprio del terreno. Dopo essere stato consigliere comunale a Ferentino dal 1907 al 1912, venne candidato per il mandamento della città per il rinnovo del Consiglio Provinciale di Roma e riuscì eletto a grande maggioranza. In questi anni ebbe l’incarico di Presidente della Giunta Generale del Consiglio ed ottenne la correzione del tronco stradale che collega Borgo Sant’Agata al Vascello, favorendo la sistemazione degli odierni Viali Alfonso Bartoli e Guglielmo Marconi. Ebbe poi l’incarico di progettare il nuovo altare per la chiesa di Santa Maria Maggiore e nel 1911 ne realizzò uno imponente in marmo con decorazioni musive di gusto cosmatesco recante gli stemmi del Papa Pio X (1903-1914)e del Vescovo dell’epoca – Mons. Domenico Bianconi (1897-1922). Tuttavia, nel 1979 la Soprintendenza ai Monumenti del Lazio ha fatto rimuovere l’altare in quanto inadeguato al linguaggio cistercense dell’edificio e l’attuale altare a mensa risale al 1984 realizzato con materiale di spoglio dell’opera di Morosini. Dietro incarico dell’Amministrazione Comunale, eseguì lavori di manutenzione e totale rinnovamento della pavimentazione in quadrucci di basalto delle Vie Consolari e Cavour. Nel 1915 – dopo il disastroso terremoto – ricevette l’incarico di progettare tutti i lavori occorrenti a riparare e consolidare gli edifici pubblici di proprietà comunale danneggiati dal sisma. Nel 1922 ebbe l’incarico dal Comune l’incarico di progettare il Monumento ai Caduti della I Guerra Mondiale, da costruire al centro della Piazza Umberto I, la piazza principale della città. Morì nel 1954 realizzando anche la tomba di famiglia, ricalcando il progetto sacconiano della cappella espiatoria di Monza in memoria di Umberto I. La vita e le realizzazioni di Morosini testimoniano il suo interesse per l’antichità classica e le sue opere dimostrano un costante richiamo alla tradizione umanistica nel rispetto per le proporzioni armoniche e per le forme eleganti ed ornate in modo sempre sobrio. Pur essendo laureato in ingegneria, firmò la maggior parte delle sue opere con il titolo di architetto, anteponendo la sua naturale disposizione artistica a quella più propriamente tecnica.
Costanza Caterina Troiani (XIX sec. Beata)
Di Giuliano di Roma, fu portata in Ferentino ad appena sei anni, dopo essere rimasta orfana di madre in modo assai drammatico. Il Vescovo di Ferentino l’affidò alle cure delle monachelle del Conservatorio di S. Chiara della Carità. Maturata la vocazione religiosa, si fece suora nello stesso Conservatorio dove era stata accolta ed istruita; essendo maestra, si dedicò all’emancipazione delle ragazze dall’ignoranza senza distinzione di classe sociale. Per i disegni imperscrutabili della Provvidenza Divina a 46 anni uscì dalla clausura per affrontare una straordinaria missione di evangelizzazione presso le popolazioni islamiche d’Egitto al Cairo, dove aprì una casa non senza essere passata attraverso la rottura con la Casa Madre di Ferentino. Fondò un nuovo Ordine, quello delle Suore Francescane Missionarie del Cuore Immacolato di Maria, dette d’Egitto, al quale prima della morte della Madre la Casa di Ferentino si congiunse in un solo Ordine. Madre Caterina promosse un’opera altissima di emancipazione delle fanciulle dalla schiavitù e di soccorso per i bambini abbandonati (la vigna di S. Giuseppe) e per i derelitti. Segue il testo della lapide commemorativa apposta sulla facciata della casa madre della Congregazione fondata da Caterina Troiani.
Don Giuseppe Morosini
Medaglia d’ oro al valore militare. Ordinato nel 1937, don Giuseppe Morosini divenne, nel gennaio del 1941, cappellano militare del 4° Reggimento d’artiglieria a Laurana. Trasferito a Roma nel 1943, dopo l’8 settembre entrò nelle file della Resistenza collegandosi con la banda “Mosconi” operante a Monte Mario. Ne divenne assistente spirituale, ma si adoperò anche per procurare armi e vettovagliamenti e, soprattutto, ottenere informazioni. Da un ufficiale della Wehrmacht, riuscì addirittura ad ottenere una copia del piano operativo delle forze tedesche schierate sul fronte di Cassino, che trasmise agli Alleati. Denunciato da un delatore, certo Dante Bruna, che ottenne in compenso 70 mila lire, don Giuseppe fu arrestato dalla Gestapo il 4 gennaio del 1944. Sottoposto a tortura, mantenne un orgoglioso contegno. Condannato a morte e ristretto a “Regina Coeli” nell’ attesa dell’esecuzione, si prodigò per sostenere i compagni di carcere e gli ebrei che vi erano rinchiusi. Il 3 aprile 1944 il valoroso sacerdote fu trasportato a forte Bravetta per esservi fucilato da un plotone della PAI (Polizia Africa Italiana); all’ordine di “fuoco!”, 10 componenti del plotone (su 12) spararono in aria. Ferito dai colpi degli altri, don Giuseppe Morosini fu ucciso dall’ufficiale fascista che comandava l’esecuzione con due colpi di pistola alla nuca Motivazione: Sacerdote di alti sensi patriottici, svolgeva, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, opera di ardente apostolato fra i militari sbandati, attraendoli nella banda di cui era cappellano. Assolveva delicate missioni segrete, provvedendo altresì all’acquisto ed alla custodia di armi. Denunciato ed arrestato, nel corso di lunghi estenuanti interrogatori respingeva con fierezza le lusinghe e le minacce dirette a fargli rivelare i segreti della resistenza. Celebrato con calma sublime il divino sacrificio, offriva il giovane petto alla morte. Luminosa figura di soldato di Cristo e della Patria (Roma, 8 settembre 1943 -3 aprile 1944).
Alberto Lolli Ghetti
Medaglia d’ oro al valore militare. Alberto Lolli-Ghetti nacque a Ferentino il 4 maggio 1915 da Ambrogio e Lisa Sterbini; il padre era direttore delle Poste, la madre apparteneva ad una famiglia di proprietari terrieri. “Esile, non alto, riccioluto e biondo, di lineamenti delicati, ma sbarazzini, vivace, ma buono”, Alberto frequentò le scuola elementare, avendo come maestro Cesare Pinelli; si iscrisse al Ginnasio nel Collegio “Martino Filetico” di Ferentino e durante il suo corso di studi cominciò a maturare il progetto di “fare carriera nell’esercito”, dove già molti suoi familiari si facevano onore. Il padre Ambrogio, detto familiarmente Gino, di fieri sentimenti repubblicani e socialisti, educò Alberto ai doveri verso la Patria, ma anche alla difesa dei diritti del cittadino calpestati dal regime fascista, che in quel periodo governava l’Italia. Il padre gli fece leggere, già a quindici anni, I Miserabili di Victor Hugo, libro da lui definito “la Bibbia dell’Umanità”; inoltre lo educò alla pratica degli sport, specialmente l’equitazione e lo sci. Conseguita la licenza liceale presso il liceo classico di Frosinone, Alberto si iscrisse nel 1935 alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Padova; ma il suo desiderio rimaneva quello di diventare ufficiale del Regio Esercito ed entrare nell’arma del genio militare. Alberto “come militare voleva rendersi utile, fattivamente, concretamente e con la propria professionalità concorrere alla costruzione di strade, di ponti, di fortificazioni, alle comunicazioni, ai trasporti specie nei momenti di calamità naturali”. Nel 1936, dopo aver superato il concorso, entrò con il 118° corso nella “Regia Accademia di Artiglieria e del Genio” di Torino. Il 4 novembre 1938, prestato solenne giuramento di fedeltà al Re, Alberto divenne ufficiale effettivo del Regio Esercito ed entrava nella Scuola d’Applicazione, una scuola che preparava professionalmente e militarmente i giovani sottotenenti che la frequentavano. Nel 1940, all’entrata dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, Alberto era in procinto di sostenere gli ultimi esami; come tutti i giovani suoi coetanei esultò alla notizia e non desiderava altro che partire per dimostrare il suo valore e la sua preparazione. L’ordine tanto atteso arrivò il 13 dicembre 1940, mentre Alberto si trovava a Napoli per un periodo di addestramento: fu inviato sul fronte africano. Dopo un breve soggiorno a Tripoli, dove ebbe l’amaro presentimento che la guerra sarebbe stata lunga, Alberto si stabilì, verso la fine di dicembre, con la sua compagnia alle soglie del deserto. Tra i soldati, che con lui condividevano la triste esperienza della guerra e del deserto, ebbe la felice sorpresa di trovarne ventisei provenienti da Ferentino. L’operazione militare tanto attesa arrivò il 21 novembre 1941: un reparto della 1° Compagnia Genio Artieri d’Arresto, al comando di Alberto, fu inviato nelle prime ore del mattino, forse le quattro, oltre le linee verso Tobruk. Il reparto doveva “sminare” la zona a loro assegnata; il lavoro procedeva velocemente, quando furono attaccati di sorpresa dagli avversari. Alberto organizzò subito la difesa e, dopo quattro ore di accerchiamento, riuscì ad aprirsi un varco, liberandosi dalla morsa nemica. A questo punto Alberto si accorse che la batteria tedesca rischiava di capitolare; allora tornò indietro per prestare aiuto. Riuscì nell’intento e aiutò i soldati a mettersi in salvo, ma, mentre l’operazione “rientro” dei suoi uomini stava volgendo al termine, un proiettile di carro armato lo colpì, troncandogli quasi del tutto la gamba sinistra. “La tremenda ferita non gli impedì di combattere sinché non vide l’ultimo geniere raggiungere le linee amiche; poi cadde stremato sul duro terreno desertico, intriso di sangue e di morte”. Trasportato da un mezzo tedesco al 96° ospedale da campo, subì l’amputazione dell’arto: “rifiutò l’anestesia, per lasciare quel poco di cloroformio che rimaneva ad altri”. Tra il 24 e il 25 novembre 1941 fu trasferito all’ospedale della divisione e successivamente all’ospedale da campo n. 893 di Derna. La sua agonia terminò il 2 dicembre 1941. Motivazione Dotato di alto spirito di sacrificio, al comando di plotone artieri-minatori, si distingue per ardimento e capacità nella esecuzione, sotto continuo fuoco avversario, di lavori di approccio per l’attacco di munitissima piazzaforte avversaria. Attaccato di sorpresa da forze corazzate, mentre è intento al lavoro oltre le linee, raccoglie i propri uomini e contrattacca a colpi di bombe a mano. Successivamente, accortosi che una batteria di artiglieria sta per cadere in mano all’avversario, con felice iniziativa e generoso cameratismo, accorre col suo plotone a compiere il lavoro di disancoraggio, egli stesso impugna un attrezzo, e, geniere fra i genieri, animando il febbrile lavoro salva la batteria. Prodiga quindi ogni sua energia per disimpegnare il plotone da critica situazione, e mentre sta per raggiungere l’intento, viene colpito da proiettile di carro armato, che gli tronca una gamba. Incurante delle sue gravi condizioni, rincuora i genieri feriti e dà disposizioni per il ripiegamento. All’ospedale da campo subisce con stoica sopportazione l’amputazione della gamba, e subito dopo la grave operazione si preoccupa di scrivere al capitano comandante la compagnia, per fornirgli notizie dei genieri feriti e chiedere quelle della compagnia. Morente, pronunzia superbe parole di soddisfazione per il dovere adempiuto e sublimi espressioni di devozione alla Patria. Fulgido esempio di salde virtù militari. (Africa Settentrionale, novembre 1941).
Giovanni Ballina e Ambrogio Pettorini
Vittime innocenti dell’eccidio alle Fosse Ardeatine (Roma, 24 marzo 1944), Testo della lapide commemorativa, apposta nell’androne del Palazzo Comunale di Ferentino dal Comitato “Giovanni Ballina”: Giovanni Ballina e Ambrogio Pettorini di Ferentino strappati con violenza agli affetti familiari conobbero torture e umiliazioni barbaramente trucidati il 24 marzo 1944 alle Fosse Ardeatine (Roma) furono vittime innocenti dell’odio e della crudeltà nazifascista. I familiari e la cittadinanza a perenne ricordo dei loro cari e degli ideali di giustizia e di libertà, Ferentino 24 marzo 2009 nel 65° anniversario del martirio.
Domenico Salvatori
Medaglia d’argento al valor militare. Dopo aver conseguito la licenza elementare studiò per tre anni presso il locale Seminario, approfondendo la propria cultura e fortificando la sua fede religiosa; nel contempo provvedeva ad aiutare la famiglia nel duro lavoro dei campi. All’età di 18 anni si arruolò nell’esercito e fu inquadrato nel 1° Reggimento di Artiglieria Alpina Torino, facendosi apprezzare per le sue qualità umane ed intellettuali oltre che di bravo soldato e raggiunse rapidamente il grado di sergente. Nella primavera del 1941 la sua Divisione, la “Taurinense”, fu inviata nei Balcani. Domenico e i suoi commilitoni sbarcarono a Valona e per mesi furono impegnati in operazioni di controllo del territorio albanese e montenegrino. Con l’8 settembre, alla firma dell’ armistizio, i soldati italiani, senza ordini ed aiuti, finirono alla mercé delle truppe naziste. Domenico aderì alla resistenza, entrando a far parte dell’ Esercito Nazionale di Liberazione Albanese. Dopo lunghi mesi di lotta, Domenico fu catturato e sottoposto a duri interrogatori e torture affinché rivelasse i nascondigli e i nomi degli altri partigiani ed infine, visto che tali mezzi non sortivano gli effetti sperati, i suoi aguzzini passarono alle lusinghe, offrendogli la salvezza in cambio della sua collaborazione. I suoi sentimenti puri, il suo onore di soldato, la sua fede di cristiano non gli permettevano di far pagare alla sua coscienza il prezzo richiesto dai suoi carnefici. Il suo rifiuto netto e sdegnato alla lusinga della collaborazione in cambio della salvezza lo spinse direttamente verso un consapevole martirio. Sottoposto ad un breve processo farsa da parte del Tribunale Militare di Guerra di Shutari, il 26 ottobre 1944 fu condannato a morte per fucilazione, sentenza eseguita il 29 ottobre 1944.