Tradizioni
Il Carnevale Acerrano e le lamentazioni
Una delle tradizioni più longeve che il popolo acerrano ricordi e che tuttora viene conservata è: il Carnevale Acerrano.
Per gli acerrani la personificazione del carnevale è parsa una cosa legittima. Carnevale per gli acerrani ,infatti, ha un nome, Vicienzo, una moglie, Vicenza, e tanti figli. Egli possiede inoltre una storia, una vita da narrare: un vissuto pieno di debiti e senza soldi al quale ha dovuto far fronte arraggiandosi, facendo lo scroccone, l’imbroglione fin quando è morto per aver ingurgitato troppo in fretta una polpetta, che bloccatasi nella laringe l’ha fatto soffocare.
Per la morte tragica di Vicienzo quindi ad Acerra è d’uso lamentarsi.
Le lamentazioni hanno luogo il martedì (martedì grasso) pomeriggio intorno al cadavere del Carnevale esposto alla commiserazione della gente nei cortili o sulle aie delle masserie. Altre lamentazioni hanno luogo la sera durante le esequie del Carnevale che si snodano per la città. Il primo lamento funebre è riservato alle sole donne e ai bambini, il secondo invece viene fatto da uomini vestiti da donna che seguono il corteo. Nel primo pomeriggio le donne, anziane e giovani, insieme ai bambini ritornano nei cortili con tammorre, castagnette ed altri strumenti musicali. Iniziano così le lamentazioni secondo un modello stabilito. Il modello consiste nell’affidare l’esaltazione delle qualità, dimostrate in vita dal defunto, alla madre o a chi ne era la parente anziana più prossima. Gli astanti devono limitarsi a ripetere collettivamente una frase di commozione stereotipa. Ci troviamo così di fronte a due interventi precisi: da una parte chi conduce il pianto e dall’altra un lamento collettivo. Ad Acerra il “lamento” viene affidato ad esclamazione del tipo: “Uhé, gioia soia!; Uhé figliu mio!; Uhè, maronna mia!” etc. Dal punto di vista strutturale il pianto è articolato su di un distico (strofa di due versi) di varia misura con rima baciata, ad assonanza o libero, alla cui fine si aggiunge la frase fissa:” Uhé, gioia soia! “, in funzione corale. I distici sono frammisti a filastrocche il cui ritmo di tammurriata è velocissimo. Alle filastrocche inevitabilmente segue un altro distico funebre e laddove la filastrocca diviene più veloce e movimentata essa assume funzione di danza, la quale viene interrotta al culmine per precipitare nel lutto espresso dal distico. La stessa filastrocca-tammurriata ha lo scopo evidente di coinvolgere gli astanti nella commiserazione di Vicienzo.
Ci pare opportuno fare alcune considerazioni sul testo (di queste lamentazioni). Innanzitutto va sottolineata la carica emotiva con cui si partecipa alla fine del Carnevale. Vicienzo appare addirittura come cosa propria, cosa viva, anzi sangue dello stesso sangue: “Sangu mio, sangu preziusu mio”.
Ed oltre la disperazione va notato come dal tragicomico a poco a poco si sfoci nel grottesco e s’incominci a narrare con dovizia di particolari tutti i difetti del morto. Questi riguardano ancora una volta la sua vita sociale in rapporto con gli altri e la sua vita intima. Vicienzo sotto l’aspetto sociale appare un senza danaro, un debitore, un morto di fame e, conseguentemente, nella sfera privata egli è un impotente sessuale. Il primo aspetto è chiaramente evidente nella strofa: “Carnevale surunto, surunto, a Pasca facimmo ‘e cunt, addereto te siente tira, pettulina nun ‘a vuó pavà!”. E ancora: “Tu sì muorto e nun me ruminaste niente”.
Il secondo aspetto è richiamato nella strofa: “Carnevale, Carnevaletto jette a piscia e se ne carette”. Ed ancora: “Me rummase ‘e coglie cu ‘e guarnamiente”.
L’impotenza economica appare inconsciamente responsabile dell’impotenza sessuale quindi, e tanto più elevato sarà il disagio sessuale quando più la precarietà economica sarà avvertita. Perciò si nota qua e là nella lamentazione un certo astio verso il defunto: “I si sapevo ca te ‘nturzava ‘a palla ‘nganna te ne menavo l’ati quatto”.
Dopo le lamentazioni solitamente le donne, i bambini e gli uomini presenti si trattengono intorno al catafalco funebre danzando e cantando al ritmo di tammurriate e tarantelle. Altre danze si svolgono al ritmo di tammurriate dopo che c’è stato un dialogo cantato a fronna .
La fronna, o più correttamente “ ‘a fronna ‘e limone “, è un tipico canto campano eseguito senza accompagnamento musicale. La struttura melodica è affidata alla bravura dell’esecutore e non ha regole fisse. La fronna, per la sua versatilità nel dialogo, veniva solitamente usata per i colloqui tra i carcerati e i loro parenti all’esterno, che si scambiavano così informazioni e messaggi d’amore.
Ormai la tradizione dl Carnevale Acerranno è patrimonio di pochi e di poche che fortunatamente tramandano ai più giovani questa antica usanza, la speranza è quella di far ritornare il Carnevale acerrano ai fasti di un tempo e non far si che lo stesso cada nell’oblio.